L'ultimo sorriso: Lenzioncina Dantesca di Mirco Cittadini

L’ultimo sorriso: Lenzioncina Dantesca di Mirco Cittadini

In questi giorni avrei dovuto danteggiare in diverse occasioni. Parlare di Dante, Beatrice, le dee del Purgatorio, le donne nella Commedia.
Tutto saltato. Perché è giusto. Per senso di responsabilità.

Allora mi permetto di riportare l’ultimo capitolo del mio libro “Tutto è Paradiso – Lezioncine dantesche” edito da Spirito della Terra.
Così almeno qualcosa posso condividere con voi. Condividere quello che per me conta di più in Dante.

Nona lezioncina
L’ULTIMO SORRISO

S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore
di là dal modo che ‘n terra si vede,
sì che del viso tuo vinco il valore,

non ti maravigliar; ché ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
così nel bene appreso move il piede.

Questo per dire è l’incipit del canto quinto del Paradiso. A parlare è lei, la Santa!
In altre parole starebbe a dire: “Se io ti appaio fiammeggiante qui per l’ardore di amore in un modo che oltrepassa quello che può vedersi in terra, così da vincere la tua potenza visiva, non ti stupire; perché questo dipende da un diverso vedere (tuo) che via via che apprende il bene, così si addentra in esso.”

La Beatrice che appare sulle vette del Paradiso Terrestre, abbiamo visto, è un ammiraglio, dura come Minerva/Medusa, pietrifica con i suoi rimproveri, fa sgrondare di lacrime il povero pellegrino pentito e innamorato.
E soprattutto parla. Parla tantissimo.
In Paradiso anche di più. Sempre di più. Lei è la guida. Lei è la maestra. Si esprime come un vero e proprio Dottore della Chiesa. Tiene lezioni sulle macchie solari della Luna, filosofeggia di metafisica. Spiega, chiarisce i dubbi, si scalda per le questioni politiche più spinose, s’indigna.
Questo ce la farebbe sembrare quasi antipatica. Noiosa. Come un po’ ci appare tutto il Paradiso se lo leggiamo superficialmente, con gli occhi ancora pieni di fuliggine infernale.
Però, tornando alle terzine che ho citato in apertura di questa ultima lezioncina, al tempo stesso è la donna amata e amante.
E noi sappiamo che il percorso di conoscenza è un percorso intriso di ardore sensuale.
Lo avevamo visto parlando dei Sapienti che inghirlandano con le loro coreografie luminose il Cielo del Sole.
“S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore”: è un’espressione bellissima, intensa, appassionata.
Cosa sta dicendo qui Beatrice? Se mi vedi risplendere più di prima… Perché questa è una delle tante e strabilianti invenzioni del Poeta.
Il Paradiso è il regno dell’incorporeo, dell’immateriale, del puro software, come scriveva Umberto Eco. Quindi Dante riesce a capire che sta salendo di cielo in cielo attraverso gli occhi e il sorriso di Beatrice, i quali di volta in volta si fanno sempre più luminosi.
Beatrice è specchio dell’infinito, dell’infinita sapienza, dell’infinito amore e dell’amore che è infinito.
Tutto in fondo aveva avuto inizio da uno sguardo.
“Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto quanto la propria girazione quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la qual fu chiamata da molti Beatrice.”
Così nella Vita Nova, fin dalle primissime righe, l’apparizione della donna amata.
Tutto aveva avuto inizio attraverso gli occhi.
Lo sguardo è nel Medio Evo il mezzo potente attraverso il quale avveniva la fascinazione, l’incantesimo per cui l’uomo si innamorava della donna. Già Andrea Cappellano, il quale aveva scritto un trattato d’amore noto a Dante (uno dei fondamenti teorici per la costruzione della storia di Paolo e Francesca), sosteneva che l’amore deriva dall’atto del guardare. L’amore è un’avventura tutta immaginativa. La donna amata è una donna lontana, irraggiungibile. Amor de lohn lo chiamavano.
Gli occhi quindi, lo sguardo dell’amata, diventano a pieno titolo premio e ricompensa per il poeta.
Questo nasconde un altro concetto, quello del vassallaggio d’amore. L’uomo è servo della sua signora/domina così come lo è il vassallo nei confronti del suo signore. Come questo dona ricompense al suo fedele, così quella, proprio attraverso lo sguardo, dona pace al suo devoto innamorato.
Senza parole. Così era la Beatrice della Vita Nova, una figura carismatica e silente.
Quello che era un topos dell’amore cortese, qui – nella Commedia – diventa strumento potente di redenzione.
Ad un certo però del romanzo giovanile, Beatrice nega il suo saluto, abbassa lo sguardo e toglie ogni possibilità di comunicazione tra lei e il poeta innamorato. Beatrice nega il suo sguardo. Beatrice “questa gentilissima” la quale “salute salutava”, donava quindi salvezza attraverso il suo saluto, diventa ora fonte di dolore e sofferenza.
Quello che segue è la morte della donna amata. Tra i due non una parola. Non un gesto. Questa storia d’amore così medievale nasce con lo sguardo e termina con uno sguardo negato. La morte porterà il silenzio degli occhi. Il silenzio dell’amore.
Termina nella vita terrena. Non termina nei regni del perdono e della beatitudine.
Beatrice, già nel secondo canto dell’Inferno, scende agli Inferi da Virgilio. È una Beatrice nuova e al tempo stesso ci riappare con gli occhi che “lucevan più di una stella”, con la potenza del suo sguardo incantatore. È una donna disposta a posare nuovamente il suo sguardo pietoso su Dante, per liberarlo dalla selva del peccato. Da qui inizia il viaggio e il poema che conosciamo.
La storia finita nella Vita Nova riprende con un nuovo respiro cosmico nella Commedia. La donna amata diventa Santa, guida, salvezza.

Così Beatrice a me com’io scrivo;
poi si rivolse tutta disiante
a quella parte ove ‘l mondo è più vivo.

Lo suo tacere e ‘l trasmutar sembiante
puoser silenzio al mio cupido ingegno,
che già nuove questioni avea davante;

e sì come saetta che nel segno
percuote pria che sia la corda queta,
così corremmo nel secondo regno.

Quivi la donna mia vid’io sì lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
che più lucente se ne fé ‘l pianeta.

E se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec’io che pur da mia natura
trasmutabile son per tutte guise!

(Così mi disse Beatrice come io ne scrivo; poi si rivolse, piena di desiderio, a quella parte dove il mondo è più luminoso. Il suo silenzio e il fatto che cambiò aspetto fecero tacere il mio avido ingegno, che già si proponeva nuove domande; e rapidi come una freccia che colpisce il bersaglio prima che la corda dell’arco smetta di vibrare, così salimmo al II Cielo. Qui vidi la mia donna così felice, non appena entrò nell’astro di quel Cielo, che il pianeta stesso divenne più lucente. E se la stella si trasformò e rise, figuriamoci come potei fare io che, per la mia natura mortale, sono soggetto a ogni tipo di mutamento!)

Siamo sempre nel canto quinto. Stiamo assistendo al passaggio dal Cielo della Luna al Cielo di Mercurio. Beatrice e il pianeta si riflettono l’un l’altro. Se lei è felice, il pianeta stesso è felice. Addirittura ride, si trasforma, così come la donna cambia aspetto.
Se in Cavalcanti lo sguardo della donna era qualcosa di mortifero e guerresco, per Dante, lo sguardo della donna rappresenta la trascendenza, la salvezza.

Certo, a volte, le cose sono più difficili.

Già eran li occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l’animo con essi,
e da ogne altro intento s’era tolto.

E quella non ridea; ma «S’io ridessi»,
mi cominciò, «tu ti faresti quale
fu Semelè quando di cener fessi;

ché la bellezza mia, che per le scale
de l’etterno palazzo più s’accende,
com’hai veduto, quanto più si sale,

se non si temperasse, tanto splende,
che ‘l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende.

(I miei occhi erano nuovamente fissi al volto della mia donna, e insieme ad essi il mio animo, privo di qualunque altro interesse. E Beatrice non sorrideva; ma cominciò a dirmi: “Se io sorridessi, tu diventeresti tale quale divenne Semele quando fu incenerita; infatti la mia bellezza, che accresce man mano che saliamo le scale del palazzo eterno, come hai visto, se non fosse temperata splenderebbe a tal punto che la tua vista mortale, al suo fulgore, sarebbe un ramo abbattuto dal tuono.)

Siamo nel Cielo di Saturno (Par. XXI), giunti letteralmente al settimo cielo! Ma quello di Saturno è un cielo misterioso, freddo, lontano. Un cielo dove non c’è musica. Dove non c’è luce. E la Santa coerentemente non sorride. Il poeta si impensierisce, ma lei spiega, “se io ridessi, la mia bellezza e il mio splendore sarebbero tali che tu verresti incenerito, così come Semele fu incenerita vedendo Zeus”.
Più si sale per le scale del Paradiso e più si splende, ma non sempre il corpo e i sensi di Dante sono in grado di sostenere tale visione. E questo sarà uno dei motivi per i quali San Bernardo, l’ultima guida della Commedia, pregherà la Vergine Maria di rendere Dante (che ricordiamo sta facendo il suo viaggio in carne e ossa, da vivo), pronto a sostenere la visione di Dio.
La bellezza di Beatrice è sempre un po’ una bellezza pericolosa. Il Paradiso non è solo il regno della pace e della beatitudine, mille inquietudini crepano l’apparente maestosità formale.
Beatrice è una Santa. Beatrice è una Dea. E come tutte le Dee richiede rispetto e timore. Va avvicinate con cautela.

Abbiamo visto dove questa storia aveva avuto inizio, dove si era interrotta e dove aveva ripreso vita.
Quale sarà la conclusione tra i due?
La conclusione sarà nel punto più alto che la mente umana può concepire. Nell’Empireo, il luogo dove tutti i beati risiedono, sulle loro scalinate e gradoni, in una sorta di teatro immenso, uno stadio senza limiti.
Ma non è propriamente un teatro. È una rosa. Il Paradiso è una rosa.
L’immagine del Paradiso, quello vero, non è un’immagine granitica, imponente, bensì appare “in forma dunque di candida rosa”. È un’immagine vegetale fragilissima. È un’immagine femminea di rara delicatezza. È qualcosa di bello e al tempo stesso effimero (ricordate la Rosa del Piccolo Principe?).
Eppure è eternamente effimera. È come l’idea di un cibo che nutre ma non sazia. Il Paradiso è fatto di questi paradossi. È un regno che sembra durare appena un giorno. Ma lo è per l’eternità.
“Una rosa è una rosa è una rosa”, diceva Gertrude Stein.
Nel canto XXXI del Paradiso, al cospetto di questa rosa celeste, Dante darà il suo ultimo saluto alla donna amata.
Non può essere alla fine del poema, quello no, quello è uno spazio riservato a Dio e a Dio soltanto. Beatrice non potrà stare con lui fino alla fine. Lo può solo accompagnare sulla soglia. Ad un’altra guida, San Bernardo, è destinato tale compito.

Da quella region che più sù tona
occhio mortale alcun tanto non dista,
qualunque in mare più giù s’abbandona,

quanto lì da Beatrice la mia vista;
ma nulla mi facea, ché sua effige
non discendea a me per mezzo mista.

«O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
in inferno lasciar le tue vestige,

di tante cose quant’i’ ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
riconosco la grazia e la virtute.

Tu m’hai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt’i modi
che di ciò fare avei la potestate

La tua magnificenza in me custodi,
sì che l’anima mia, che fatt’hai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi

Così orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò a l’etterna fontana.

(Da quella regione del cielo dove tuona più in alto, un occhio umano non è tanto lontano neppure se si trova nel più profondo abisso del mare, quanta era la distanza tra i miei occhi e Beatrice; e tuttavia non mi faceva nulla, poiché la sua immagine non arrivava a me attraverso un mezzo fisico.
“O donna in cui si rafforza la mia speranza, e che per la mia salvezza sopportasti di lasciare le tue orme nell’Inferno, se ho potuto vedere tante cose riconosco che tale grazia e tale virtù è derivata dal tuo potere e dalla tua bontà. Tu mi hai da servo portato alla libertà, per tutte quelle strade e in tutti quei modi in cui tu avevi il potere di fare questo. Custodisci questo tuo dono in me, cosicché la mia anima, che hai reso sana, si separi dal corpo nel modo che a te piacerà.” Pregai in tal modo; e Beatrice, così lontana come appariva, sorrise e mi guardò, poi tornò all’eterna fontana.)

Di nuovo la donna ritorna lontana, irraggiungibile, amor de lohn. Di nuovo torna solo il suo sguardo. Uno sguardo che è al tempo stesso lontanissimo e vicino. Lui la vede, perché immersi nell’amore celeste non ci sono più diaframmi, resistenze, distanze. Quello del poeta diventa uno sguardo invincibile, metafisico.
E il poeta le rivolge parole bellissime, simili ad una preghiera, molto simili a quella preghiera che tra poche terzine San Bernardo rivolgerà alla Vergine.
“Tu m’hai di servo tratto a libertate”: tu mi hai reso libero.
È con Beatrice che arriva la liberazione. La condizione ultima della felicità umana. Senza Beatrice non ci sarebbe alcun Paradiso. Non ci sarebbe nessuna commedia senza Beatrice. L’esperienza sarebbe fallimentare come quella di Ulisse. Questo il senso dell’amore.
Cosa può esserci di più bello e paradossale di un amore che rende liberi? Liberi forse dall’amore stesso.
La donna amata lo guarda e sorride, ricambia il saluto/salute. Ma poi torna a rivolgersi a Dio.

E questa è una conclusione stupenda per spiegare cosa sia il Paradiso. Per capire come mai Francesca si trovi all’Inferno e altri no.
L’errore di Francesca è stato quello di guardare troppo fissamente un amore terreno, senza capire che quell’amore, che quel corpo, poteva rimandare a Dio. Non ha guardato le stelle. Non ha saputo orientare il suo sguardo a ciò che è eterno ed infinito.
Questo fatichiamo a capire noi della Commedia.
Dante dona a tutti la possibilità di essere santi e beati. Fonda il Purgatorio, il regno del libero arbitrio, proprio per testimoniare questo. L’importante è orientarsi a qualcosa di eterno, alto, trascendente. Senza però dimenticare Beatrice! Senza però dimenticare i nostri vizi e le nostre debolezze. Beatrice è la salvezza perché in fondo è sempre stata lei il tallone d’Achille di Dante.
Dante non ha avuto Beatrice in vita e si è inventato tutto questo mondo, potrebbe dire qualcuno. Dante non ha avuto Beatrice e se l’è ripresa nell’al di là. Lui novello Orfeo e lei novella Euridice (e guarda caso, Orfeo ed Euridice hanno in comune lo stesso numero di lettere di Dante e Beatrice, al di là della rima Euridice:Beatrice). Anzi Beatrice è l’Orfeo che scende agli inferi e libera il proprio uomo dalla morte eterna. Senza voltarsi.
L’amore frustrato invece che diventare ossessione o disperazione, diventa porta al divino. Ma Beatrice non è punto di arrivo. Questo sarebbe fraintendere il messaggio comico di Dante. Beatrice è il mezzo. La porta orientale. Così come Maria sarà la porta che condurrà alla visione finale. L’amore di Dante è caritas e eros. Uno non esclude l’altro. Uno non nega l’altro. Coesistono. Simultaneamente.

L’importante è tornare alle stelle. Da lì proveniamo. Lì dobbiamo tornare, nel regno (in)corporeo del Desiderio. Dentro di noi abbiamo questa memoria di infinito. “I nostri sogni e le passioni, così come l’angoscia e la morte, sono intrecciati nel tessuto stesso dell’universo” scrivono Swimme e Tucker.
Siamo solo noi liberi di scegliere tra Inferno e Paradiso. La responsabilità è solo nostra. Il Male, il peccato, la Caduta, è solo questione di Amore. Amore orientato troppo verso se stessi. O troppo verso cose terrene. O Amore intiepidito. O amore eccessivo per le gioie carnali.
Ma nonostante questo, noi siamo destinati al Paradiso. Questa è la natura delle cose. È una legge. Non c’è scelta. L’amore è una legge universale. Noi siamo attratti per gravitazione al Sommo Bene. Scegliere di resistergli significa andare contro la nostra natura divina. Questo è l’Inferno. La nostra scelta di andare contro noi stessi.
Dante non nega il vizio. Ma lo ammette omeopaticamente. Un professore mi disse che Dante è tantrico. La cosa potrebbe spalancare nuovi labirinti. Dante è un mistico. Nell’unione di principio femminile e principio maschile vede la salvezza.
Dante si rivolge a Beatrice, ma non è la donna innamorata la meta ultima. Quella resta Dio, nel suo essere divino e immagine umana.
E così pure Beatrice, da lontano, gli sorride. Ricambia finalmente il suo saluto, fonte di salvezza eterna. Per tornare poi alla sua meta, alla meta di tutti noi. Alla fontana di beatitudine. A ciò che è altro. Alto.
E questa potrebbe essere la morale di tutta la Commedia. Il messaggio di felicità che Dante scrive per noi.
Accordare la nostra vita alla sinfonia del cielo, dei pianeti e delle stelle.
Ma le stelle non sono qualcosa di estraneo a noi. Sono un volto familiare. Un volto benevolo.

Guardiamo le stelle e riconosciamo uno sguardo. Uno sguardo ridente. Uno sguardo d’amore. E il nostro saluto, guardando il cielo, è sempre ricambiato.

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