"Uccido chi voglio" di Fabio Stassi

“Uccido chi voglio” di Fabio Stassi

Di Angelo D’Andrea

L’anteriorità di Corso e i suoi libri

Che questo romanzo di Fabio Stassi si possa definire come la storia della ricerca di un’anteriorità lo si capisce fin dall’inizio, fin dalla prima pagina, dove compare a chiare lettere, sorprendentemente e di già, l’epilogo.

Sarà dunque una storia di un lento risalire il fiume del tempo?  Ma l’epilogo qui è un antefatto, un episodio accaduto nel lontano dicembre 1959. E quindi non è un epilogo. E tuttavia, campeggia la marmorea scritta “epilogo” per noi che entriamo con molte speranze nel libro.

Oltrepassiamo il varco delle prime pagine e ci incamminiamo in un’atmosfera mistery/noir di fatti che vengono raccontati in ordine cronologico ma (sorpresa!) vengono elencati come se fossero un conto alla rovescia.

Accidenti, cosa succede? Succede che partendo da un sedicente epilogo che di fatto è una premessa, seguiamo in avanti la fabula romanzesca che si svolge dal 29 giugno al 15 luglio 2016 la quale, a sua volta, si dispiega in capitoli contrassegnati alla rovescia, dalla Z alla A.

E quindi ci troviamo a sfogliare con una sensazione di “contromano” le pagine di uno Stassi che va dall’inizio alla fine ma, allo stesso tempo, dalla fine all’inizio. Uno Stassi che sapientemente rompe gli schemi.

Ma quello che conta è l’approdo, no? A quale conclusione si arriva, ovunque essa sia? Chi lo sa a quale conclusione! Non c’è una conclusione. Ce ne sono  molte.

Il mio essere lettore di questa storia mi ha fatto attraccare a un personale porticciolo: ho gettato l’àncora sull’anteriorità. Mi sono felicemente incagliato sulla riflessione delle origini.

Ecco, se dovessi dichiarare la prima qualità della tua ombra, dalla quale molte cose discendono, direi proprio la tua anteriorità. La tua è la musica delle premesse, degli antefatti remoti: hai il sapore di una leggenda, sei un indizio che precede, un presagio di qualcosa che è già accaduto. L’alfa e l’omega di tutto. Ma non è per te che mi nascondo in me stesso, perché tu sei antecedente persino alla mia e alla nostra vergogna, e io sono fatto di tutta questa anteriorità: porto in ogni mio singolo atomo un’esperienza anteriore di molte cose, anche dell’amore.

F. Stassi, “Uccido chi voglio”, Sellerio Editore, pag. 265

Parole vellutate di un figlio sensibile per un padre assente. Come a dire: non guardare solo dentro di te, all’interiorità. Guarda alle spalle, fino alla punta estrema delle più lontane radici.

Vince Corso fa questo. Alla fine non fa altro che questo. Lo sanno i lettori che lo seguono da un po’. Perché lui, è spinto da questa forza motrice “anteriore” da tre libri fa.

É un personaggio che procede in avanti nei suoi bislacchi giorni da biblioterapeuta e va indietro nel tempo per scriversi, e cioè, darsi una memoria del padre perduto. Un’anteriorità. Costruendosi la vita un giorno dopo l’altro, cerca di ri-costruire il tempo primordiale degli anni in cui il padre sparì.

A pensarci, Vince Corso fa un po’ come tutti noi. Anche quando un padre ce lo abbiamo avuto, ci confrontiamo con la sua Idea. Con quel qualcosa che percepiamo più grande di noi, schiacciante e accogliente allo stesso tempo, un interlocutore muto con cui confrontarci per definire la nostra identità.

Chi sei tu? Per capire chi sono io. Il Padre con la sua “mitica assenza” che, quando non è fisica, è psicologica. (Qui ritorna l’archetipo del “padre assente”. Oggi, la narrativa potrebbe iniziare a prendere in maggior considerazione una diversa figura paterna,  postindustriale del XXI secolo, che ha perso la sua inaccessibilità e marca, non meno della madre, la sua presenza educativa in famiglia).

Vince Corso non parte alla ricerca del padre come un Telemaco. Dove dovrebbe andare? Lui non sa dove il vecchio si trovi. Ma gli scrive.

È da quando Fabio Stassi ce lo ha presentato con “La lettrice scomparsa” che Vince Corso spedisce cartoline ad un padre mai visto. Ha continuato a farlo anche con “Ogni coincidenza ha un’anima”. E ora, con “Uccido chi voglio” (Sellerio, 2020, 288 pag, 14 euro), lo vediamo finalmente decidersi a fare di meglio: a scrivere una lunga lettera. A mo’ di Kafka che aveva fatto del suo proprio padre la misura di tutte le cose. Corso come un Kafka? Beh sì, in qualche misura.

Ma Vince Corso è un coagulo di molta letteratura. Ha i modi dimessi, e a volte anche i dialoghi, di un detective alla Marlowe di Raymond Chandler. Però le sue donne sono meno fatali di quelle di un noir d’altri tempi.

Lui vive di libri,  prescrive letture di romanzi come fossero fàrmacon (rimedio, anche magico, medicina, anche nociva). Un palliativo ai piccoli grandi drammi che le donne-clienti gli presentano come un male psicologico-esistenziale.

In qualche misura, Vince Corso quando è nella sua soffitta di via Merulana a Roma (una Roma assolutamente multietnica tra Piazza Vittorio e Santa Maria Maggiore) indossa i panni di una specie di counselor o – mi piace di più dire – di un sussurratore di anime.

E ci porta a ri-leggere, con i suoi pazienti, romanzi che non ricordavamo così significativi. Romanzi d’amore e di morte. Polizieschi. Classici. D’ogni genere. Romanzi che stavolta, con “Uccido chi voglio”, prendono vita, escono dalle pagine.

Perché, se finora Vince Corso ha fatto entrare i personaggi nei libri suggeriti, ora con questa sua terza avventura fa entrare i libri nella vita di alcuni, purtroppo, sfortunati personaggi che diventano, loro malgrado, e davvero, le vittime sacrificali, di una Setta (una setta un po’ bizzarra e non molto credibile, a dire il vero, ma non per questo meno letale) che ordisce cruente “scene del crimine” ispirate a certi letture, quando leggere (troppo) non è la cura ma il male. 


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